Il Dribbling di Kukoc

«Ma lo sai che una volta ho incontrato Toni Kukoc che prendeva il caffè a Monte Urano?».

«Ma dai, ma chi ci crede…».

Se sia vero o meno, è difficile dirlo, se non affidandosi completamente alla persona che me lo raccontò, ormai tanti anni fa. Di sicuro la storia è verosimile, perché il fuoriclasse croato del Fermano fu un frequentatore non diciamo assiduo ma quasi negli anni della sua esplosione.

Merito di una intuizione della Dribbling, azienda che nasce per produrre scarpe da calcio e che a cavallo tra gli anni Ottanta e Novanta visse i suoi anni di gloria. Grottazzolina, dove aveva sede l’impresa della famiglia Vallasciani, non era una metropoli e tantomeno una città di basket. Nei piccoli centri di provincia del Fermano, dove l’esplosione della calzatura aveva portato ricchezza e benessere, la religione laica era una sola: il calcio. «Il nome dell’azienda è legato ovviamente a quello», conferma Roberto Vallasciani, che è stato alla guida dell’azienda di famiglia per decenni e che nel cuore degli anni Ottanta sgomitava con le varie Nike, Adidas, Lotto, Diadora e via discutendo per le forniture delle grandi squadre di calcio di casa nostra. Un’impresa titanica per una ditta a conduzione familiare che cercava la sua strada verso il successo.

«Fu in quegli anni che iniziammo a ragionare all’utilizzo dello sport come veicolo di pubblicità – racconta Vallasciani – diventare sponsor tecnico di una squadra era un’opportunità, ma se fornire il materiale alle squadre non era un problema, lo abbiamo fatto per anni anche col Torino e con la Roma, la questione si complicava con le scarpe. Perché già all’epoca gran parte dei calciatori di Serie A avevano i propri sponsor personali. Ma anche nel basket si iniziavano a vedere casi del genere. Il più eclatante fu quello della Benetton Treviso e l’accordo con Lotto: su una copertina di Superbasket apparve la foto di non ricordo quale giocatore con le scarpe verdi che l’azienda aveva fatto apposta per loro e il baffo Nike appiccicato sopra, visto che era lo sponsor personale dell’atleta. Qualcosa di tremendo».

Insomma, entrare nel mercato era complicato già all’epoca. L’intuizione arrivò però la sera del 6 aprile 1989. «Mi ero appassionato al basket avvicinandomi alla Sangiorgese Basket, che in quegli anni giocava in Serie A2, e così’ quella sera ero davanti al televisore a guardare la finale di Coppa dei Campioni – svela “Mister Dribbling” – si sfidavano Jugoplastika Spalato e Maccabi Tel Aviv. Al di là della partita in sè, anche se era facile simpatizzare per questi ragazzi un po’ outsider che stavano conquistando l’Europa, fui colpito da una cosa: la squadra non aveva uno sponsor tecnico».

Foto: Basketfinals.com

Il fatto è che il Muro di Berlino crollerà solo qualche mese dopo, la Jugoslavia, seppur i venti secessionisti inizino a sentirsi, è ancora unita e il comunismo, seppur minato da crepe sempre più profonde, resiste graniticamente. In questo contesto, lo spazio per operazioni commerciali come le sponsorizzazioni sono infinitesimali: vorrebbe dire aprire al libero mercato, ovvero a una concezione capitalistica antitetica a quella di stampo filosovietico. Ma guai a sfidare un rampante imprenditore calzaturiero fermano in quegli anni rampanti…

«Iniziai a muovermi per trovare un aggancio con la Jugoplastika, che quella partita la vinse e si laureò campione d’Europa – prosegue Vallasciani – entrai così in contatto con Mira Poljo, che in quel periodo aveva un socio italiano e che all’epoca si occupava di rappresentare come agente principalmente calciatori. Lei però era super appassionata di basket e subito entrammo in sintonia. Mi disse: “La sponsorizzazione tecnica della squadra la facciamo in 24 ore: con la fornitura del materiale tecnico una squadra dell’Est è già apposto. Noi dobbiamo puntare su Toni Kukoc”».

Seppur l’Mvp delle finali fosse stato Dino Radja, era chiaro a tutti che Kukoc fosse la stella più luminosa di quella squadra. E va bene sponsorizzare la squadra campione d’Europa: ma se non puoi usare l’immagine del suo campione più rappresentativo per farti pubblicità serve a poco. «Pensate che quando sponsorizzammo il Torino campione d’Italia negli anni Settanta, ci chiesero semplicemente la fornitura di scarpe da gioco completamente nere, così ogni giocatore poteva poi apporre il logo del suo sponsor personali, per cui noi era come se non esistessimo, non avevamo ritorno d’immagine in quella cosa. Solo Nello Santin, che non aveva un suo sponsor, giocava con le nostre scarpe tutte nere. Idem con la Roma dei primi anni Ottanta: i nostri prodotti erano apprezzatissimi, noi potevamo dire di essere fornitori di queste grandi squadre, ma se non hai i volti dei giocatori a cosa serve?».

Memore di quella lezione, il duo Vallasciani-Poljo va a caccia del nuovo fenomeno del basket europeo: il primo per farlo diventare il volto di Dribbling, la seconda per diventarne sua agente in vista del futuro sbarco in NBA, scontato già all’epoca. «Dissi a Mira che ci sarebbero voluti un sacco di soldi per convincerlo e che non avevamo grandi cifre a disposizione, ci dobbiamo vendere la chiesa a Grottazzolina poi per pagarlo – prosegue l’imprenditore fermano – ma lei era fiduciosa e organizzò un incontro col ragazzo, che all’epoca aveva 21 anni. Andammo a Spalato per parlare con lui e io, prendendola un po’ alla larga ma col pragmatismo di noi marchigiani, sono arrivato subito al sodo, anche perché, pensavo tra me e me, se questo ci chiede 100 milioni di vecchie lire come un giocatore dell’Avellino calcio ci salutiamo e amici come prima».

E invece… «Rimasi spiazzato quando mi disse che non voleva una lira. Ci chiese solo un favore: “la cifra che pensavate di dare a me, usiamola per darla alla squadra sotto forma di materiale sportivo e casual. Io ho già diversi privilegi essendo il giocatore più in vista e non voglio farlo pesare sul resto della squadra. Ho persino la macchina, tutti gli altri no”. Aveva una vecchia 126 cui aveva tolto i sedili anteriori per poterci entrare meglio, non certo una Ferrari. Questo ti fa capire lo spessore della persona che era il Toni Kukoc che conoscemmo quel giorno: un campione nel vero senso della parola, non solo sul campo. Restai di sasso, ma siglammo il contratto».

L’accordo è presto raggiunto: Dribbling diventa lo sponsor tecnico della Jugoplastika Spalato e Kukoc il volto della rampante azienda fermana, mentre in cambio quantità imponenti di canotte, pantaloncini, scarpe, polo e anche abbigliamento casual sbarcano regolarmente sulle banchine del porto di Spalato.

Foto: pagina Facebook “Kosarka ex Yugoslavia”

Così la “Pantera Rosa” inizia a frequentare il nostro paese e il Fermano in particolare, dove nelle pause che concede la stagione si reca più volte per shooting ed iniziative promozionali. Una volta fu persino ospite a un allenamento della Sangiorgese al PalaSavelli. Un momento che Vallasciani ha impresso nella mente. «Erano tutti gasati per l’arrivo di Toni, la società preparò per l’occasione un buffet con una grande torta col numero 7. Erano tutti euforici, mentre lui stava un po’ sulle sue. Parliamo pur sempre di un ragazzo poco più che ventenne lontano migliaia di chilometri da casa, anche se qualche parola di italiano almeno l’aveva imparata. A un certo punto lo vediamo prendere un pallone e salire sulle gradinate della Curva Cimitero. Noi lo guardiamo inebetiti mentre lui si piazza nel punto più alto, proprio alle spalle del tabellone. Senza pensarci troppo, lancia la palla verso il canestro e ciuff, dentro al primo tentativo. Ci svelò che da quando aveva 9-10 anni aveva l’abitudine di andare agli allenamenti una mezz’oretta prima a tentare questi tiri impossibili e per questo era diventato così bravo. Una naturalezza che ti mortificava».

L’operazione Kukoc funzionò e la Dribbling si fece spazio nell’ex Jugoslavia agganciando anche il Bosna Sarajevo, squadra che sotto la guida di Boscia Tanjevic e con l’impareggiabile genio di Mirza Delibasic era arrivata sul tetto d’Europa poco più di una decina d’anni prima. Poi però arrivò la guerra… «Ero con Mira al tristemente conosciuto Holiday Inn di Sarajevo proprio quando stava per esplodere il conflitto per stringere l’accordo con quella che era la squadra più rappresentativa della Bosnia – dice Vallasciani – ricordo che, tempo prima, ci avevano invitato per vedere una partita contro il Partizan Belgrado. C’era un ragazzo con loro, con il numero 10, che, da profano del basket, mi sembrò davvero fortissimo anche se ancora molto giovane. Tornando a Porto San Giorgio segnalai tale Predrag Danilovic alla società, ma non mi presero molto sul serio… Comunque, in quei giorni, incontrammo all’hotel anche i fratelli Petrovic. Due persone squisite. Stavamo parlando su un divanetto della situazione che si stava creando in Jugoslavia e a un certo momento, con assoluta semplicità, uno dei due, non ricordo quale, mi disse: “dovremmo evitare la guerra, ma ad un certo punto se non si può fare a meno imbracceremo le armi”. Lì ho capito che se anche due persone pacate e a modo come loro erano pronte a prendere i fucili voleva dire che la guerra era davvero alle porte».

Ma se Vallasciani e la Poljo sono a Sarajevo è sia perché quella è la città di Mira, ma anche perché in ballo c’è il futuro del loro gioiello più prezioso: Toni. «La vedevo irrequieta in quei giorni, faceva telefonate di nascosto e non capivo perché – rimembra Roberto – alla fine la presi in disparte e le chiesi che stava succedendo. Mi svelò che il mattino seguente sarebbe arrivato a Sarajevo col suo volo privato Gilberto Benetton che voleva definire l’accordo per prendere Toni e portarselo a Treviso. In effetti lui diceva sempre che gli sarebbe piaciuto giocare un paio di anni in Italia prima di andare in NBA perché non si sentiva pronto per azzardare subito un salto del genere».

La prima scarpa da basket quando iniziai a giocare a basket, a 7 anni? Quelle Lotto lì!

Non dimentichiamo il fattore cash: a Spalato Kukoc era sì il re della città, ma giocava per pochi spiccioli, mentre a Treviso il contratto che gli aveva fatto firmare Mira Poljo recitava circa 4 miliardi all’anno, cifre che lo avvicinavano ai grandi del calcio di quell’epoca (era sui livelli di Ruud Gullit al Milan, per capirci). Il problema era che, a quel punto, il sodalizio con Dribbling non poteva più andare avanti: la concorrenza di un gigante dell’abbigliamento come Benetton (e di Lotto, sponsor tecnico della squadra) non era affrontabile per una piccola azienda come quella fermana. «Capimmo la situazione e nella tarda primavera del 1993 Toni firmò per Treviso – prosegue l’allora patron di Dribbling – l’unico rammarico che ci rimase era quello di non aver avuto la possibilità di sfruttare a pieno l’incredibile occasione che ci eravamo costruiti: avremmo dovuto comprare miliardi di euro in spazi pubblicitari, ma non ce lo potevamo permettere. Se compro Messi e non lo dico a nessuno, è come se non ce l’ho. Certo, grazie a quella operazione riuscimmo a penetrare anche nel basket in Italia, sponsorizzando Napoli, Firenze, Caserta, la Pavia di Oscar Schmidt e diverse altre realtà tra Serie A1 e A2. Ma al grande pubblico faticavamo comunque ad arrivare e se un grande nome come Kukoc non lo usi per vendere tonnellate di scarpe ai ragazzini innamorati di lui, a livello di marketing, serve a poco». Se la liaison con Kukoc finisce mestamente così, il rapporto umano resta saldo ancora a lungo. «Continuammo a sentirci con una certa regolarità almeno fino alla sua prima stagione in NBA, un’ulteriore conferma dello spessore umano che aveva: era un fuoriclasse che non ti faceva mai pesare il fatto di essere tale». E fu così che quando la guerra scoppiò per davvero in Bosnia e Kukoc e Radja si misero in testa di dare una mano alla nascente Nazionale bosniaca, allestita da Delibasic e vogliosa di andarsi a giocare le qualificazioni per Eurobasket 1993, Toni alzò la cornetta per chiedere un favore al vecchio amico Roberto: fornire il materiale tecnico da dare alla squadra, che nel frattempo stava scappando dalle bombe di Sarajevo per raggiungere Zagabria. L’operazione riuscì e Toni e Dino consegnarono al neonata Bosnia ed Herzegovina le canotte con il logo Dribbling con le quali prima vinsero il torneo di qualificazione e poi volarono fino ai quarti di finale dell’Europeo vero e proprio. Sconfitti proprio dalla Croazia (priva di Kukoc però): simpatico il destino no?

Foto: pagina Facebok “The Long Shot Documentary Bosnia”

di Marco Pagliariccio