Sogni e incubi di Dwayne Davis

The night has fallen, I’m lyin’ awake
I can feel myself fading away
So receive me brother with your faithless kiss
Or will we leave each other alone like this
On the streets of Philadelphia?

Bruce Springsteen, “Streets of Philadelphia”

Tu te lo ricordi cosa facevi a 13 anni? Io sì, più o meno. Di mattina presto correvo, a piedi, fino alla fermata dello scuolabus. Prima di andare in classe qualche pacchetto di Goleador o di gomme da masticare Dolber in caccia di Volpi e Poggi, poi sei ore di lezione, il ritorno a casa per l’accoppiata pranzo+Simpson, di corsa a fare allenamento, i compiti (ogni tanto). Andava più o meno così la vita a 13 anni a Sant’Elpidio a Mare.

Dwayne Davis non è stato così fortunato. Neanche lontanamente. A 13 anni il nuovo bomber della Ristopro Fabriano viveva in macchina con la sorellina di 8 anni e il fratellino poco più che neonato e ogni mattina si svegliava senza sapere cosa avrebbe messo sotto i denti a colazione. E soprattutto se colazione sarebbe riuscito a farla e a farla trovare pronta ai suoi fratellini. La città dell’amore fraterno sa essere terribilmente dura, alla faccia dell’etimologia del suo nome.

Dwayne nasce a Philadelphia, nella malfamata zona nord della città, il 27 novembre 1989 e i suoi genitori sono una coppia soltanto a parole. Il padre non lo riconosce nemmeno, la madre Lawanda, che lo ha avuto ancora 16enne, salta da un lavoro all’altro, da un uomo all’altro con la stessa regolarità con la quale il piccolo, nei campetti della periferia della città, trova il fondo della retina. È una macchina e gli amichetti di quelle strade suburbane delle quali Springsteen cantava prima che l’hip hop si prendesse il ruolo di voce dei senza voce (la sublime “Dreams and Nightmares” di Meek Mill, uno dei figli di Phila, sembra disegnata apposta per raccontare la storia di Dwayne) gli danno il soprannome di “Rifleman”, il fuciliere. Perché il basket è la sua valvola di sfogo, un luogo dove vomitare la sua creatività e le sue inquietudini, lontano dai malesseri di una famiglia dove trova poco amore e ancor meno cibo. Il suo buen retiro.

Foto: www.ligauruguaya.com

Nel suo fragile equilibrio, la vita di Dwayne va comunque avanti piuttosto serenamente fin quando, in una notte del 2003, tutto cambia improvvisamente: la madre, affetta dal lupus (una malattia autoimmune), finisce in ospedale e in pochi giorni muore. «Ero devastato – ricorda Davis in una intervista a Yahoo! Sports di qualche anno fa – era stata in ospedale alcune volte in precedenza, ma era sempre tornata a casa nel giro di qualche giorni. Quella volta successo tutto all’improvviso. Non l’abbiamo vista più tornare. Fu la notizia peggiore che abbia mai ricevuto in vita mia».

Con un padre che non ne vuole sapere dei figli e un patrigno che appare e scompare dalla sua vita, Davis deve diventare grande molto in fretta. Impara a guidare il vecchio van di sua madre in modo da poter accompagnare sua sorella a scuola e si mette a vendere Playstation rubate a pochi spiccioli per alzare qualche soldo per nutrire sé stesso e i suoi fratellini. Alzarsi, correre, arrivare a fine giornata. Stop. Repeat.

Focalizzarsi sullo studio o sul basket in queste condizioni è davvero improbo per Dwayne, che però dopo qualche mese quantomeno trova un lavoro part-time in un negozio di giocattoli: sempre meglio che vendere Playstation rubate. «Non volevo chiedere aiuto ad altri familiari – confessa – sono una persona che vuole fare con quello che ha e se non ce l’ha non va a chiedere ad altri. Per cui anche allora feci quello che potevo con le mie forze».

Le cose cambiano quando lo zio diventa il tutore legale dei tre ragazzini. Almeno ora hanno un tetto sotto cui dormire e anche se il rapporto non è dei più semplici (e Dwayne continua a lavorare nel negozio di giocattoli per avere qualche soldo in tasca), per lo meno ora il basket può tornare nei suoi pensieri. A spingerlo c’è l’assistente allenatore del liceo cui si iscrive, la Strawberry Mansion High School, Stan Lewis. Stan lo ospita spesso a casa sua e tra i due nasce un legame molto profondo, che ne influenza anche il modo di stare in campo. Il suo talento esplode fragoroso nei tornei statali (i 22,1 punti a partita nel suo ultimo anno al liceo valgono il titolo statale alla sua squadra) e i radar dei college captano forte e chiaro il segnale che arriva da una delle scuole più pericolose d’America. Ma il fatto che venga da una situazione familiare che definire “border line” è un eufemismo, che il rendimento scolastico sia basso e che sia diversi chili sovrappeso a causa di una dieta molto “fastfoodeggiante” sono tutti elementi che fanno sì che le università di spicco girino alla larga. Inoltre in campo fa spesso fatica a trattenere scatti di ira ed esplosioni fragorose di rabbia incontrollata: il segno della morte della madre è ancora troppo fresco e profondo.

Alla fine una chance gliela offre il piccolo college di Morehead State, nel Kentucky. Coach Donnie Tyndall stravede per Dwayne, che però non avendo i voti minimi necessari per la borsa di studio, dovrebbe restare un anno fermo, rimettersi in pari sul fronte accademico, magari approfittarne per tirarsi a lucido a livello fisico e poi entrare davvero nel basket collegiale dalla porta principale. Parliamo pur sempre di un college di Division I, non di prima fascia ma comunque una vetrina nazionale.

La sua esperienza a Morehead, però, dura pochi mesi: infrazioni su infrazioni portano Tyndall dire basta e a spingere la scuola a rispedirlo a Philadelphia. È uno shock per Davis: per 18 mesi salta da un junior college all’altro (ventelleggiando come di consueto) ma decide di focalizzarsi sugli studi e di diventare prima di tutto un uomo. Nel frattempo si rimette in sesto anche sul fronte fisico, facendosi aiutare da un preparatore atletico, tale Eric Evans. «All’inizio dovevamo avere a portata di mano dei secchi della spazzatura ad ogni angolo della palestra perché non potevi mai sapere se dopo aver corso troppo avrebbe vomitato», ricorda Evans.

Rimessosi in carreggiata, ecco la nuova chance: Southern Mississippi lo chiama per dargli una nuova opportunità. Ma dopo essersi beccato una sospensione di un anno dopo essere finito a discutere in maniera a dir poco animata riguardo il voto di un compito di durante una lezione online, Dwayne ne ha abbastanza: basta basket, basta scuola, basta tutto. Un vortice nero lo sta risucchiando verso i bassifondi da cui stava cercando di emergere con fatica enorme.

Nel momento più basso della sua carriera sportiva e accademica, un segnale divino riaccende la lampadina: Southern Mississippi chiama coach Tyndall come allenatore. Sì, QUEL coach Tyndall, quello che lo volle fuori da Morehead State. I due si ritrovano in palestra, con reciproca sorpresa. Potrebbe finire in tragedia, invece il loro rapporto sboccia. I due si parlano, il coach trova un Dwayne cambiato e tocca le corde giuste, il ragazzone da Philly trova gli stimoli giusti per rimettersi in carreggiata. L’anno ai box passa in fretta e così Dwayne ha in mano il suo ultimo asso: un anno da senior in NCAA per far vedere di valere i grandi giocatori collegiali di quell’anno.

Le cose vanno esattamente così.

Dwayne Davis (al centro) con coach Donnie Tyndall (a destra).
(AP Photo/Rogelio V. Solis)

Nella sua unica stagione con i Golden Eagles, Davis viaggia a 16,0 punti a partita col 41% abbondante dall’arco, 4,5 rimbalzi e 2,6 assist, spingendo i suoi a una stagione da 27 vittorie e una corsa fino ai quarti di finale al NIT, prestazioni che lo portano ad essere nominato nel primo quintetto della stagione nella Conference USA. Le sue prestazioni non passano inosservate e diverse squadre NBA mettono gli occhi su di lui in vista del Draft 2013. Ad un workout con i Chicago Bulls, la franchigia si offre di mandargli una limousine a prenderlo in aeroporto. Lui risponde di no perché una spesa così generosa non era necessaria, avrebbe preso un taxi. E quando un dirigente lo porta a cena fuori, lui ordina la cosa meno costosa sul meno: una pizza. Voleva far risparmiare qualche soldo ai Bulls. La sua forma mentale gli impone di limitare gli sprechi al minimo indispensabile.

Al PIT, una delle vetrine più interessanti per gli scout di mezzo mondo in cerca di giocatori in uscita dal college che non siano tra i radar delle big NBA, fa fuoco e fiamme, viaggiando a 21,7 di media, stampando pure una gara da 29 punti. Il sogno di una chiamata al Draft, magari quella all’ultimissimo vagone, non è proprio un’utopia.

La notte che può cambiargli la vita, però, non va come sogna: nella notte che regalerà una (col senno di poi) sciagurata numero 1 a Anthony Bennett il nome Dwayne Davis non risuona neanche al fianco del numero 60, quello che porta i diritti di Janis Timma nelle mani dei Memphis Grizzlies. Diverse franchigie si sono segnate comunque il suo nome e alla fine i Golden State Warriors, che stanno preparando il terreno intorno al duo Curry-Thompson, gli danno una chance per la Summer League. In una squadra che annovera giovani rampanti come Draymond Green, Kent Bazemore e Nemanja Nedovic (e che poi vincerà quella edizione del torneo), Davis trova poco spazio (3,1 punti a partita) e così il sogno NBA svanisce definitivamente. È tempo di provare a emigrare e Murcia è ben felice di dargli una possibilità.

La sua stagione da rookie, quella dei primi soldi guadagnati col basket dopo gli anni ad arrabattarsi alla bene e meglio, la gioca in ACB. La squadra fa il suo, si salvandosi senza patemi, e Davis mostra tutte le sue qualità di atleta versatile e realizzatore mortifero appena ha palla in mano: 10,5 punti a partita col 48% da 2 e il 35% da 3 in poco più di 19’ di utilizzo non sono niente male per un esordiente nel campionato più duro al di fuori della NBA. Purtroppo l’arrivo in corsa di un veterano come Pete Mickael gli toglie spazio e fiducia e la sua stagione finisce in calando.

Il ragazzo in canotta bianca ha avuto una discreta carriera, non credete?

L’anno dopo emigra in Grecia, rispondendo presente alla chiamata del Koroivos. La sua prima stagione in Esake è di nuovo convincente, ma è nella seconda che esplode fragorosamente: 18,3 punti (58% da 2, 34% da 3, 89% ai liberi, secondo miglior realizzatore di tutto il campionato), 5,2 rimbalzi ed 1,8 assist a partita. Contro l’Arkadikos ne mette addirittura 36. È in rampa di lancio, potrebbe puntare a una squadra che lo porti nelle coppe europee ai misurarsi con i migliori del continente. E invece nell’estate 2016 opta per la nostra Serie A2, accasandosi prestissimo (già a fine giugno) presso una Aurora Jesi in cerca di rilancio dopo una sudatissima salvezza. Con lui e Tim Bowers come coppia di piccoli, un paio di veterani come Benevelli e Alessandri e tanti giovani da lanciare (Battisti, Janelidze, Picarelli, Maganza) l’Aurora cerca e trova presto la quadratura del cerchio. Davis è una furia che si abbatte come un uragano sulle difese della A2. È una macchina da canestri e le sue performance spingono Jesi nella bagarre per i playoff, traguardo che ai leoncelli mancherebbe da otto stagioni. Contro Chieti tocca il suo massimo in stagione spazzando via gli abruzzesi con 38 punti praticamente in tre quarti, perché esce per falli (tra le proteste veementi di un PalaTriccoli inviperito) quando c’è ancora un tempo da giocare.

Quando due settimane dopo firma con 27 punti il successo su Piacenza la Termoforgia è coi piedi nelle prime otto. Le otto sconfitte nelle ultime gare spengono il sogno jesino, ma arriva comunque una salvezza senza passare dalle forche caudine dei playout e può bastare e avanzare. Il campionato di Davis è pazzesco: 24,1 punti col 49% da 2 e il 36% da 3, 5,6 rimbalzi, 3,7 assist, 19,9 di valutazione.

Un’iradiddio.

Foto: www.centropagina.it

Ormai il suo è un nome consolidato in Europa, dopo quattro stagioni tutte in crescendo. Ma invece di capitalizzare il successo raccolto, ecco il nuovo cambio di rotta: nell’estate 2017 emigra in Argentina, firmando all’Instituto Atletico Central de Cordoba. Anche in Sudamerica domina: nella sua prima stagione porta di peso l’Instituto alla semifinale contro il San Lorenzo e viene inserito nel primo quintetto del campionato (insieme ad un certo Gabriel Deck), in quella successiva (dopo una parentesi nella lega estiva di Porto Rico) è in Uruguay all’Aguada de Montevideo. Un’annata esaltante nella quale è leader della squadra che sta volando verso il titolo nazionale, senonché un infortunio dopo gara 1 di finale gli toglie la possibilità di esultare sul parquet coi compagni. L’ennesimo stop di una carriera che non ne vuol sapere di regalargli la gioia di salire sul gradino più alto del podio.

Nell’estate 2019 torna di nuovo a Cordoba, dove resta fino a gennaio 2020 (facendo in tempo a diventare capocannoniere della regular season di Basketball Champions League Americas) prima di andarsene… ancora all’Aguada, che lo richiama per ridare l’assalto al titolo. Dopo lo stop causa covid-19, la squadra della capitale ha inserito anche l’ex Clippers Al Thornton per dare all’uomo di Philadelphia il supporto necessario per prendersi il primo, vero titolo della sua carriera. L’Aguada viaggia spedito fino in finale in una stagione che è iniziata a settembre 2019 per finire a febbraio 2021 e qui trova il Trouville sulla sua strada. Davis infila 26 punti in gara 1 e possono bastare per mettere subito le cose in chiaro, in gara 2 dice 33 e il 2-0 è confezionato. In gara 3 arriva lo scivolone nonostante i 32 del nostro, ma in gara 4 si chiude il cerchio: con un Davis “normale” (19 punti), l’Aguada completa l’opera e firma la doppietta: il primo titolo della carriera per il neofabrianese è realtà.

In Sudamerica ha comprato una moto con la quale gira la città e va a festeggiare coi tifosi dopo le partite. Per questo è rapidamente diventato uno degli idoli della torcida cittadina (foto: Club Atletico Aguada Facebook Page)

A 32 anni, la parabola di Dwayne non ha ancora conosciuto il suo atto finale. Non è ancora il momento di tornare nei sobborghi di Philadelphia e affrontare una volta per tutte i demoni di un passato che ti segna nel profondo. Fabriano sarà un’altra tappa in un percorso di redenzione che non potrà che finire lì, lungo le “streets of Philadelphia”. Ma stavolta non nel portabagagli di un minivan. Non a vendere videogiochi all’angolo buio dell’ultimo sobborgo della città. Ma a testa alta, con l’orgoglio di chi ce l’ha fatta.

I’m the same nigga from Berks Street with them nappy braids that lock
The same nigga that came up, I
had to wait for my spot
And these niggas hatin’ on me, hoes waitin’ on me
Still on that hood shit, my Rolls Royce on E
They gon’ remember me, I say remember me

Meek Mill, “Dreams & Nightmares”

COME GIOCA DWAYNE DAVIS?

Per questa domanda abbiamo chiesto di rispondere a uno che il neo fabrianese lo conosce bene. Parliamo di coach Damiano Cagnazzo, che di Davis fu l’allenatore nella sua strepitosa stagione jesina.

Foto: www.qdmnotizie.it

«La storia di Dwayne fa capire perché spesso abbia scelto di andare in cerca di un contratto sicuro più che di una situazione in cui magari prendere qualche dollaro in meno per investire su sé stesso in prospettiva – evidenzia Cagnazzo – a livello tecnico, in A2 è un 3 ma che deve giocare molto con la palla in mano per rendere al massimo. Perché con palla in mano è capace di creare tanta roba, sia per sé che per gli altri. È grande realizzatore, ma non è assolutamente un accentratore del gioco o un egoista, anzi, passare la palla è una delle cose che gli riesce meglio. Magari non è un passatore alla Marquis Green, che trova sempre la palla giusta al momento giusto nella maniera più semplice possibile ed efficace possibile, ma se lo raddoppiano o triplicano a otto metri da canestro puoi stare certo che troverà una soluzione per mettere il compagno libero nelle condizioni migliori per segnare. Non un passatore “da sistema” insomma, ma sicuramente non un giocatore con la tendenza a voler fare necessariamente tutto lui. Ovviamente, però, la sua caratteristica principale è quella di essere un attaccante spaventoso. Può andare al ferro in ogni modo, anche perché ha fisico e atletismo per farlo, mentre il tiro da fuori preferisce prenderlo sempre dal palleggio, anche da distanze notevoli e con step back o altri movimenti che per altri giocatori sarebbero impossibili. Può anche tirare in uscita dai blocchi, ma non è sicuramente la sua specialità, ha bisogno del palleggio per mettersi in ritmo. Gli piace molto andare spalle a canestro e noi lo usavamo molto in quella situazione perché, e mi ricollego al discorso precedente, è molto bravo a trovare i compagni da lì. Lui amava definirsi un “corner player” e io all’inizio lo prendevo anche in giro per questo. Invece allenandolo ho capito che lui non scherzava affatto: è letale giocando dagli angoli sia per alzarsi e tirare che per attaccare dal palleggio».

Chiaro che un attaccante del genere poi spesso e volentieri paghi dazio in difesa. «Ma non è assolutamente un giocatore che non difende, è che la sua forma mentale, venendo da una formazione cestistica molto legata al playground, lo porta ad avere la necessità di avvertire una sfida per caricarsi difensivamente – spiega l’allenatore maceratese – per cui è molto forte nell’1vs1 se sente di dover dare tutto per spuntarla. Un ottimo difensore sulla palla insomma, molto meno lontano da essa, anche se poi con la sua conoscenza del gioco spesso riesce a tappare qualche falla. E grazie a questa sua intelligenza cestistica non ha problemi anche quando si deve giocare a zona: noi la usavamo ogni tanto e il fatto che sia già passato da diversi campionati europei ha fatto sì che nel suo bagaglio ci sia anche il giocare dentro una difesa tattica. Cioè se deve fare una 3-2 match-up di sicuro non ti guarderà storto come per dire “di che parliamo?”. Ad ogni modo, in A2 non ha problemi a marcare qualsiasi tipologia di esterno e se con qualche cambio finisce contro un lungo può tenere botta con il fisico che ha. Sempre legato al discorso difensivo, è un ottimo rimbalzista, si sbatte sia in difesa che in attacco sotto il ferro. Chiaro che non lo si possa definire un mastino in difesa, ma è altrettanto ovvio che un giocatore con le sue caratteristiche non li si prende per quello che dà dietro, ma per quello che sa fare quando la palla ce l’ha in mano lui».

di Marco Pagliariccio