Il Corpo del Cristo (Re)

Il mio giocatore preferito? Marco Polveroni al Cristo Re

Daniel Hackett

10 giugno 2012.

L’estate pesarese è iniziata da una settimana. La Scavolini-Siviglia si è fermata a due passi da una impronosticabile finale-scudetto, uscendo sconfitta in quattro gare da una Milano che sta ancora facendo le prove per cancellare la supremazia senese.

Daniel stavolta non ha dovuto impacchettare scatoloni e chiudere valige per tornare verso casa dopo un’altra stagione a costruire una carriera ancora in germoglio. Lui a casa quest’anno c’è già. E allora ci vuole poco a prendere il pallone, inforcare la bici e avviarsi verso il campetto. Anzi, IL campetto, perché a Pesaro di canestri sul cemento ce ne sono centinaia, ma solo uno è il Cristo Re.

Fonte: Pagina Facebook Cristo Re Playground

Quel pomeriggio, però, Daniel non è solo. Con sé ha un compagno di squadra, un ragazzone americano che di voglia non ne ha sempre tantissima, ma che quando accende il motore diventa irresistibile: Jumaine Jones, aka “The Thrilla From Camilla”. In pochi minuti si sparge la voce, si radunano tanti big emersi dalla sterminata cantera pesarese: un giovane emergente di nome Andrea Cinciarini, e poi Andrea Bartolucci, Marco Gnaccarini, Andrea Gjinaj. E poi uno dei padroni di casa: Fabrizio Facenda.

Per molti semplicemente “Bicio”, per altri “Il cappellaio matto, per tutti una leggenda

Al Cristo Re è quasi come il Fight Club. Non ci sono regole, tutti sono ammessi a giocare, che siano bianchi o neri, donne o uomini, anziani o bambini. A parte una: si gioca 4 vs 4 ai 36 punti, chi arriva si mette in fila e gioca insieme ad altri che sono già lì ad aspettare per entrare a sfidare la squadra vincente. La forma più alta di democrazia applicata allo sport che possa venirvi in mente.

Caso vuole che finiscano a sfidarsi una squadra guidata da Bicio, capitano della Vuelle risorta dalle ceneri qualche anno prima e risalita fino alla Serie A ma di fatto rimasto per gran parte della carriera nel “mare magnum” della Serie B, e l’altra dal fenomeno che fece da spalla ad Allen Iverson in una finale NBA. Canotta bianca, pantaloncini azzurri, fascetta nera, Jones gigioneggia come sua consuetudine. Bicio non ci sta manco per niente a fare lo sparring partner al più famoso pari ruolo. E qui entriamo nel campo della leggenda. «Quel giorno Bicio fece davvero il cinema con Jumaine», ricorda una persona era affacciata a gustarsi lo show per cercare di carpire un momento sul quale in America probabilmente avrebbero girato un film.

Facenda portò a scuola Jumaine Jones, imponendogli una legge non scritta di tutti i campetti del mondo: il curriculum, i trofei, la carriera, non valgono niente quando allacci le scarpette e inizi a consumarle sul cemento del playground. Del Cristo Re o di quello dietro casa vostra, non fa molta differenza.

Hackett, quella regola, l’aveva imparata tanti anni prima. L’aveva imparata da tutta una generazione di ragazzi nati e cresciuti su quell’asfalto. L’aveva imparata anche da quelli come Marco Polveroni, uno che in carriera ha segnato valanghe di canestri nelle nostre minors senza mai finire sotto i riflettori del basket di lustrini e cotillon. «Il campetto è stato fondamentale nella mia crescita – ricorda Hackett in una intervista per La Giornata Tipo di qualche anno fa – mio padre mi portava spesso da piccolo al Basket Giovane o al Cristo Re e a 10-11 anni iniziavo a giocare contro i grandi. Confrontarmi con gente più grande ed esperta mi aiutò tanto nella mia crescita, plasmò il mio Dna di giocatore: la “tigna” che tanti mi riconoscono l’ho scoperta lì, quando dovevo confrontarmi con gente più grande e forte di me».

Quella generazione il campetto del Cristo Re lo aveva scoperto a cavallo tra gli anni Ottanta e Novanta. In realtà, il campetto adiacente alla parrocchia del Cristo Re era nato insieme alla chiesa negli anni Cinquanta ma per lungo tempo nessuno se l’era filato più di tanto: si giocava a calcio e anche ad un certo livello, visto che da lì è spuntato il talento di un discreto centrocampista di nome Massimo Ambrosini.

“From Christ the King to Athens”: la maglietta che sfoggia Ambrosini alzando la Champions League appena vinta con il Milan ad Atene nel 2007 ha esattamente il significato che immaginate.
(Fonte: Alamy)

Non era e non è particolarmente bello come campetto, il Cristo: a due passi dal mare e dall’Hangar di viale dei Partigiani, certo, ma il fondo è usurato e sconnesso, i canestri non proprio all’ultimo grido e il rettangolo di gioco è incastonato tra i palazzi alti del quartiere e lo smog della Statale, che lo sprofondano in quella che da quelle parti chiamano “la buca”. E poi la concorrenza è spietata negli anni Ottanta, quando in città la Scavolini sta entrando nei suoi anni dorati. Si gioca al Lupo, si gioca a Villa San Martino (nell’oggi coloratissimo campetto intitolato all’ex arbitro Gianluca Mattioli), si gioca alla Falco, si gioca al Basket Giovane, si gioca in viale Trento (dove i ben informati giurano fosse la regola trovare Darwin Cook o Darren Daye). «A fine anni Ottanta spesso la Vuelle si allenava alla palestrina del Cristo Re, per cui non era raro che i giocatori, anche americani, spesso si fermassero a fare 1vs1 con i ragazzi che trovavano lì – racconta Paolo Manzo, per tutti “Pale”, dj ufficiale della Vuelle ma prima di tutto uno di quelli che la storia del Cristo Re l’ha scritta con il pallone in mano, giorno e notte – i primi statunitensi furono Jim Thomas e Thomas Schaeffler, poi pian piano sempre più gente ha iniziato a venire, il livello è cresciuto e alla fine tutti hanno iniziato a voler essere al Cristo perché era il campetto dove si giocava a livello più alto».

Partita dopo partita, il passaparola fa il suo effetto. Negli anni Novanta il Cristo Re diventa il Rucker Park pesarese, anzi, italiano: una sorta di Mecca laica, il luogo dove si deve passare almeno una volta nella vita per essere davvero un giocatore completo. Fior di giocatori si lasciano rapire dall’aurea magica che si respira al Cristo Re: sarà che quell’alto muro di cinta e le ombre dei palazzi che lo circondano gli danno un tocco di sacralità inviolabile, ma al campetto non è raro trovare, oltre ai big locali, anche gente come Daniele Cavaliero e Andrea Pecile, Matteo Malaventura e Matteo Soragna. Proprio la visita della medaglia d’argento di Atene 2004 è ancora una di quelle rimaste più impresse nella mente di “quelli del Cristo” proprio perché del tutto inaspettata. «Erano i primi anni Duemila, mi sembra che fossi venuto a Pesaro a trovare Malaventura – ricorda Soragna, che con il talento da Fano aveva condiviso gli anni di Biella – avevo voglia di andare al campetto e mi dissero che quello più quotato era il Cristo Re. Sono andato e ricordo che eravamo una decina in attesa di iniziare a giocare. Facciamo una gara di tiro da 3 per decidere chi giocava e niente, l’ho pure persa… Ho dovuto iniziare fuori quindi, poi sono entrato in rotazione con gli altri. Mi colpì molto il fatto che c’era una ragazza in campo, si lamentava del fatto che il ragazzo che la marcava non lo faceva per davvero. “Così mi manchi di rispetto”, gli urlava contro».

Il Cristo Re durante il torneo. No, non è venuto Soragna

La leggenda del Cristo Re, però, esplode davvero quando, negli anni Novanta, si inizia ad organizzare il primo torneo del campetto. Il suo successo è anche nella formula particolarissima che adotta, tagliata su misura per rispettare quella con la quale si gioca 365 giorni l’anno: ci si iscriveva come giocatore singolo, poi tutti i nominativi venivano gettati in un’urna ed estratti uno dietro l’altro a formare delle squadre per giocare con il solito formato del 4vs4. Niente teste di serie, niente sorteggi pilotati: uno vale uno, avrebbe detto qualcuno a Roma…

Il torneo va avanti così per diversi anni, poi una tragedia cambia la direzione della storia. Nel 2001 muore in un incidente Michele Bacchini, uno dei ragazzi della “vecchia guardia” del Cristo Re, Pale e altri prendono le redini del torneo e lo trasformano in un memorial più strutturato, nel quale non ci si iscrive più come singoli giocatori ma per squadra: il “Bacco 4Ever”. Quantità e qualità dei giocatori sale ulteriormente anno dopo anno e il torneo diventa uno dei più prestigiosi appuntamenti dello streetball, duellando solo con i Giardini Margherita di Bologna a livello nazionale. Ma se quello, negli anni, si è trasformato in un evento “mainstream”, con sponsor, organizzazione e “paillettes” quasi da campionato, l’atmosfera verace del Cristo ne fanno la cosa più vicino ai playground americani che troverete in Italia.

«Io al Cristo sono cresciuto sin da ragazzino, abitavo a 500 metri di distanza per cui o andavo lì o al Basket Giovane – dice Eugenio Rivali, che il torneo “di casa” l’ha vinto nel 2016 mettendolo in bacheca di fianco alla sfilza di trofei vinti tra Serie A2, B e C – devo dire che però il mio approccio è cambiato col tempo. All’inizio andavo praticamente solo per il torneo o al massimo quando mi invitava qualcuno: ero il giovane bravino che gli altri chiamavano per provare a vincere. Giocare con Hackett, Cinciarini, Facenda, Gurini, Broglia, Benevelli, Bartolucci e via discorrendo era pazzesco, ma non era quello il punto. Col tempo lo spirito del Cristo mi ha e ci ha affascinato tutti: vivere la quotidianità, giocando almeno 3-4 volte a settimana, arrivare alle 4 per evitare di dover fare la fila e aspettare una vita per giocare, farsi pizza e birra lì vicino da Berto… tutte cose che ti fanno sentire parte di una grande famiglia. L’importanza del campetto, al di là dell’aspetto cestistico, è proprio questa: parliamo spesso di inclusività e socialità, qua la troviamo messa in pratica per davvero. Poi certo il torneo è una figata, ormai è un evento in città e oltre e per coloro che non giocano a basket davanti a grandi palcoscenici dà gusto poter scendere in campo circondati da centinaia di curiosi, appassionati e tifosi. È una vera festa, c’è un’atmosfera incredibile. Comunque confermo la storia di Bicio e Jumaine Jones, ma ne fece una anche più bella con Cavaliero: lo portò a scuola, se ne andò, poi tornò e cosparse il campo di mangime per polli».

Rivali in azione durante le riprese di “He Got Game”
(Foto: Pagina Facebook Cristo Re Playground)

Oggi anche il Cristo Re soffre quello che sta succedendo a tanti campetti d’Italia: sarà stato il covid, sarà che i giovani d’oggi hanno mille alternative al campetto come forma di sport e socialità, sarà che i “big”, quelli che fanno da richiamo, si fanno vedere sempre meno sul cemento, ma di gente a giocare all’iconica “buca” di viale Cesare Battisti se ne vede sempre meno. E allora prima che si arrivi all’estinzione di un fenomeno prima sociale che sportivo un gruppo di ragazzi della vecchia guardia hanno deciso di raccoglierne la storia in un documentario dal titolo proprio “La Buca”. Un progetto firmato da Rossano Ronci, fotografo di caratura internazionale che ha richiamato a sé tutta la sua generazione per far lasciare a ognuno di loro il suo indelebile ricordo di un’esperienza irripetibile, che ha consegnato “la buca” alla storia del nostro sport. «Il torneo va ancora alla grande, ma è la quotidianità che si sta perdendo passo dopo passo – spiega “Ross”, che fotografa di lavoro, ma gioca giorno e notte al Cristo per passione – ormai ci si ritrova in 10-12 a giocare, un tempo c’erano tutti i campi pieni ogni giorno. Qualche giovane viene ancora e ne sono contentissimo, ma sta mancando il ricambio generazionale, non c’è più una generazione che vive h24 il Cristo Re. Ormai il playground è identificato col torneo, anche se non era quello all’inizio, anzi. Due anni fa, allora, mi è venuto in mente di raccogliere le testimonianze di tutti i ragazzi che hanno frequentato il campetto dal ’95 al primo Memorial Bacco: quelli che, senza volerlo e senza rendersene conto, hanno creato un movimento. Un movimento basato in primis sul rispetto e l’amore per il basket: quando si entra dal cancello qui si è davvero tutti uguali. Altrove, da ragazzino, capitava di prendere ceffoni e calci dai ragazzi più grandi. Avendo vissuto quella cosa lì, abbiamo voluto far capire ai più giovani che il rispetto noi lo davamo a tutti ma che lo prendevamo di conseguenza, ma volevamo farlo dando l’esempio con le azioni, con il modo di stare in campo, non con la violenza. Al Cristo il ragazzino, anche quello forte, capiva che nelle ultime 2-3 azioni doveva passare la palla al compagno più esperto, perché capiva che un giorno sarebbe arrivato il suo turno. Era un processo naturale di crescita che lo avrebbe portati più avanti ad essere lui quello che si prendeva quei tiri, lui il leader che dava l’esempio. Ma non serviva dirlo sbraitando o facendo volare le mani. È stata una scuola di vita, come tanti evidenziano nel documentario».

Il Memorial Bacco è tornato per la sua 20° edizione nel fine settimana appena trascorso. Ross, che in carriera ha due finali giocate ma entrambe perse sul cemento che è diventata la sua seconda casa, ci ha riprovato di nuovo e stavolta con un compagno di squadra pescato in Eurolega. Daniel Hackett in prima persona, infatti, è voluto scendere in campo nel fine settimane pesarese, immergendosi con l’umiltà dei grandi tra i 220 giocatori e le 39 squadre iscritte all’edizione 2022. Neanche stavolta, però, ce l’ha fatta Ross: fuori agli ottavi di finale nonostante un Hackett che magari non avrà giocato al 100% ma che ha assolutamente onorato l’impegno senza risparmiarsi. E senza negare a nessuno un saluto, una pacca sulla spalla, due parole. Come si fa nelle vere famiglie.

Hackett in azione durante l’edizione 2022 del torneo

Alla fine, il torneo l’hanno vinto Lorenzo Calbini (per ora ancora “figlio di”, ma il ragazzo promette benone), Simone e Federico Giunta, Nicolas Alessandrini e Diego Terenzi, che davanti alle 500 persone assiepate a tutto intorno alla metà campo numero 3 (con Daniel in primissima fila a godersi lo show) hanno battuto i “bramantini” Andrea Giampaoli, Vincenzo Pipitone, Alessandro Panzieri e Matteo Longoni, quest’ultimo divisosi per tutta la quattro giorni tra il campo e la fida macchina fotografica. La vittoria conta, per carità: ma l’atmosfera è impareggiabile. La respiri, la percepisci appena valichi il cancello blu e scendi la rampa che porta ai campi. Per questo quando qualcuno inizia a cantare “Come sto bene qui, io non sto bene da nessuna parte”, l’aria inizia a vibrare. Strofa dopo strofa il canto si gonfia, è come un abbraccio che unisce uno all’altro, sudore contro sudore. Il Cristo diventa una cosa sola.

«Credo che l’aspetto più bello in assoluto sia stato l’accoglienza totale, trasversale, senza il bisogno di avere qualsiasi tipo di prerequisito per giocare – sottolinea nel documentario Enrico Maria “Kiki” Paci, svezzato sul campetto a 20 metri da casa sua e poi per decenni su e giù tra Serie B e C in giro per l’Italia – anzi, la cosa più bella è stata proprio l’accoglienza dei difetti di tutti, che ha fatto crescere un gruppo e creato un traino che negli anni è rimasto ancora».

di Marco Pagliariccio