A Macerata ci nasce la Verbena

Inizio presentandomi, visto che, come un mio compagno di squadra ha detto una volta ad un malcapitato arbitro, reo di essersi lasciato sfuggire un fischio dubbio: «Ma tu chi sei? ‘Un ti conosce manco la tu’ mamma». Mi chiamo Giovanni Severini, ho 28 anni e sono nato e cresciuto a Macerata. Sono ormai al nono anno da giocatore professionista e la pallacanestro mi ha dato la possibilità di girare l’Italia. Ho esordito a Chieti, per poi passare a Firenze, l’anno successivo; sono seguiti i tre anni ad Avellino, in serie A. Nel 2017 sono sceso in A2 a Forlì, firmando, infine, alla Scaligera Verona, squadra nella quale milito tuttora. 

Giovanni Severini e una delle specialità della casa: il tiro da 3 (foto: Scaligera Basket Verona)

L’esperienza che, però, ha in un certo senso determinato tutto quello che è venuto dopo è stata quella del settore giovanile, cinque anni trascorsi a Siena, nella Mens Sana targata Montepaschi che ha fatto tanto discutere durante e anche al termine del suo clamoroso ciclo di vittorie.

Avevo cominciato a giocare a basket a 6 anni nell’Abm, la principale squadra di Macerata. Ero relativamente alto già da piccolo e i miei genitori non amavano molto l’ambiente delle scuole calcio, così mi hanno portato a provare con il basket. Ed è stato subito amore. Ho giocato con l’Abm fino alla terza media, quando, grazie al contatto di un dirigente maceratese, sono stato convocato ad un day camp organizzato dalla Mens Sana ad Arezzo. Era una giornata di allenamenti a cui erano presenti Luca Banchi, all’epoca anche coordinatore del settore giovanile, e Alessandro Magro, coach dell’U15 e assistente della Serie A. Al termine di quella giornata sono stato premiato come miglior giocatore e di lì a poco selezionato per far parte del settore giovanile mensanino.

L’impatto vero e proprio con l’ambiente senese fu uno di quelli da far girare la testa: era una calda giornata di giugno del 2007 ed ero stato invitato, con i miei genitori, a vedere gli appartamenti della foresteria, quelli nei quali avrei dovuto vivere dall’anno successivo, nel caso avessi accettato, a 14 anni, di lasciare famiglia e amici e trasferirmi lontano da casa. Contestualmente, avremmo anche potuto assistere a gara 3 di semifinale playoff tra Mens Sana e Virtus Roma, in quello che allora si chiamava ancora PalaSclavo. Forse qualcuno ricorderà ancora quella partita, i tre tempi supplementari, il duello Forte/Bodiroga, la grinta di capitan Stonerook, la schiacciata di Eze allo scadere del secondo overtime per il pareggio, la vittoria senese che fu un passo fondamentale verso la vittoria del secondo scudetto, il primo del ciclo targato Pianigiani-Banchi. Era la prima partita di serie A che vedevo dal vivo, il palazzetto era strapieno e rumoroso all’inverosimile, mi sembrava di essere capitato in un sogno. È superfluo dire che la decisione di partire e tentare la strada per diventare un giocatore di pallacanestro fu sicuramente influenzata da quella serata.

Nella successiva gara 4, dominata da Siena che chiude la serie sul 4-0, Dejan Bodiroga dà l’addio al basket giocato

A partire dall’agosto dello stesso anno, quindi, mi sono trasferito in Toscana, dove sono poi rimasto durante tutti e cinque gli anni delle scuole superiori e del settore giovanile. Ovviamente sono stati anni fondamentali per la mia crescita come persona e come giocatore e la Mens Sana ha lasciato un’impronta indelebile, di cui ancora oggi non fatico a riconoscere i segni, nel modo in cui faccio il mio lavoro e non solo. Due sono, per quella che è stata la mia esperienza, gli aspetti che hanno contribuito a rendere la Mens Sana la dominatrice del campionato italiano per anni. 

Innanzitutto, tra la squadra e la città c’era un legame di un’intensità che non ho più ritrovato altrove nella mia carriera. Mi sono reso conto fin dal primo anno dell’enorme orgoglio del popolo senese per le proprie tradizioni, a partire dal Palio, passando poi alle due principali squadre sportive, la Robur e la Mens Sana. La squadra Under 15 di cui ho fatto parte, infatti, era composta prevalentemente da ragazzi senesi che ogni tanto incontravo in giro per la città con al collo il fazzoletto della propria contrada. Sono stati loro a spiegarmi cosa fosse la “Verbena”, la pianta che cresce in Piazza del Campo e che è la “protagonista” di quel canto intonato prima delle partite dalla tifoseria biancoverde. Una sorta di inno della città. È solo il senso di appartenenza, trasmesso in qualche modo a noi “forestieri”, che può spiegare l’orgoglio e la felicità che abbiamo provato quando abbiamo vinto lo scudetto quella stagione. Un nostro allenatore, senese e contradaiolo doc, aveva l’abitudine di trasferirsi a casa della madre qualche giorno prima del Palio per preservare l’integrità del proprio matrimonio, visto che la moglie era della contrada nemica. 

Il secondo aspetto della Siena cestistica, quello più importante e che più ha segnato per me la strada da percorrere negli anni successivi, è stato quello dell’andare sempre alla ricerca della migliore versione di se stessi. Chiunque entrasse in palestra, dal direttore sportivo, all’atleta, passando per preparatori e allenatori, era determinato a fare sempre il massimo. Ovviamente questo riguardava in primis la serie A. Gli allenamenti erano di un’intensità feroce e ancora ricordo uno dei primi a cui ho partecipato, a 17 anni: esercizi di sovrannumero 2vs1 in continuità, quelli che si fanno sin da piccoli; spingo la palla e accanto a me corre Benjamin Eze. In difesa, Romain Sato, che stranamente si ostina a marcare il lungo nigeriano e lasciarmi la strada spianata verso il canestro. Decido quindi di andare fino in fondo e concludere con un comodo lay-up di mano mancina, pensando che forse Sato si fosse impietosito di fronte al timido ragazzino al primo impatto con una squadra di Eurolega. Risultato: Sato fa due passi di rincorsa e mi stoppa, spedendo la palla dove si siedono quelli che risparmiano sul biglietto delle partite.

L’esordio con la serie A è capitato, per uno scherzo del destino, contro Pesaro, in casa, quando avevo appena 17 anni. Siamo sopra di tantissimo e a pochi minuti dalla fine Pianigiani mi chiama sul cubo dei cambi: entro in campo e dire che fossi nervoso è un eufemismo. La prima palla che tocco, ovviamente, la tiro e prendo la parte superiore del tabellone, facendo mostra delle mie grandi capacità balistiche. Meglio ho fatto l’anno successivo quando, contro Teramo, sono entrato e ho segnato la prima tripla della mia carriera, in serie A. Il boato del pubblico senese è stato una grande emozione e i miei genitori hanno appeso in camera mia, a casa, una foto del momento in cui rilascio la palla. 

Una delle cose più belle dell’andare in trasferta con la prima squadra era la possibilità di conoscere un po’ meglio giocatori che erano vere e proprie leggende. Ricordo una sera in camera con Zizis che mi aveva mostrato su YouTube alcuni suoi canestro decisivi che ero troppo giovane per aver visto in diretta. Una sera a cena, in hotel, Marko Jaric, dopo essersi informato sulla mia situazione sentimentale, mi aveva detto: «Ah, se sapessi con quali donne sono stato io…». In realtà, un’idea me l’ero fatta pochi giorni prima, quando la moglie, Adriana Lima, mi era passata vicino, accompagnando il marito fuori dal palazzetto, e mi aveva salutato, facendomi quasi cadere dalla sedia. 

Comprensibile…

Un altro episodio che mi aveva colpito riguarda Marco Carraretto. “Carra”, nella Mens Sana di allora, era un panchinaro di lusso, capace di sfoderare prestazioni clamorose, dopo essere stato poco utilizzato per settimane. In una di queste, l’ala italiana aveva contribuito a battere il Panathinaikos (quello di Spanoulis, Batiste, Diamantidis, Pekovic e Jasikevicius, tutti insieme, per intenderci) con un 5/5 da 3 punti. Il giorno dopo, di riposo per tutta la squadra, Carraretto era in campo, con gli assistenti, a lavorare sul suo tiro. Un’etica del lavoro che, inevitabilmente, era poi trasmessa anche al settore giovanile, anche considerato che alcuni degli assistenti della prima squadra guidavano i gruppi under. Nel 2009/2010, la stagione poi culminata con il secondo scudetto giovanile, stavolta Under 17, la nostra squadra si allenava regolarmente due volte al giorno. La seconda seduta si teneva la sera verso le 20 e considerato l’impegno scolastico, questo faceva sì che la prima fosse alle 14.30, all’uscita da scuola, o addirittura la mattina alle 6.30, prima di entrare in classe, con allenamenti che richiedevano un abbigliamento artico.

La Mens Sana oggi è un ricordo per me e la mia speranza è che possa prima o poi ritornare a quel livello di pallacanestro a cui è sempre appartenuta. Nel frattempo, però, mi piace pensare che la mentalità e l’esperienza indelebile alla base di quel ciclo di vittorie siano trasmesse, anche inconsciamente, dai tanti giocatori, di varie categorie, che hanno condiviso con me quegli anni: Udom, ora a Brindisi in serie A, che ho avuto la fortuna di ritrovare a Verona nei due anni passati, Monaldi a Napoli, Cappelletti a Torino, Bucarelli a Roma, Perin e Bianchi rispettivamente a Piacenza e Piombino, e potrei continuare. E il discorso assume forse un maggior valore quando si parla di allenatori e preparatori: al di là di Pianigiani e Banchi, due veri mostri sacri, Griccioli, Baioni, Magro, Nocera, Catalani, Campanella sono tutti allenatori di grande livello, così come Danesi, Bencardino e Berrè costituiscono delle eccellenze assolute nel campo della preparazione atletica. 

L’ultima esperienza che Siena mi ha regalato è qualcosa d’inaspettato, per una squadra che ha dominato a lungo il campionato italiano e che, anche per quanto riguarda il settore giovanile, investiva spesso e volentieri più degli altri: la sconfitta. Oltre ai due scudetti a cui accennavo in precedenza, ho giocato altre cinque finali scudetto, perdendole tutte, alcune anche dolorosamente. Tra tutte, la peggiore è stata sicuramente quella Under 17 contro Pesaro, persa con un canestro allo scadere dopo essere stati sopra di 20 punti all’intervallo. E pensare che l’anno prima, nello stesso palazzetto, a Barletta, avevamo perso la finale della stessa categoria, stavolta contro la Virtus Bologna, sempre con un canestro allo scadere. Anche la prima squadra, nel periodo in cui ero lì, ha raggiunto per due volte le Final Four, fallendo in entrambi i casi l’accesso alla finale.

Come fare i conti con un dispiacere che, specialmente per un ragazzo di 15/16 anni sembra la fine del mondo? Un allenatore, il primo che ho avuto nel settore giovanile senese, aveva dato a ciascuno di noi una copia di una poesia, “Itaca” di Kostantinos Kavafis. Io avevo appeso la mia all’anta dell’armadio della mia camera e avendola sempre davanti mi aiutava a ricordare di “non affrettare il viaggio” e tenere presente che “Itaca ti ha dato il bel viaggio/ senza di lei mai ti saresti messo/ sulla strada: che cos’altro ti aspetti?”.

di Giovanni Severini